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Le barche di Sara: una storia di mare e di autismo

Lei spunta sul lato dello schermo, prima sbircia e poi si siede di lato accanto a suo padre, Eusebio.
«Ciao Sara…»
«Ciao…»
«Arrivi da scuola?»
«Sì.»
«Che cosa studi?»
«Ottica applicata.»
«Ti piace?»
«Non tanto. Non mi piace discipline sanitare, non mi piace storia e altre cose… però imparo un lavoro.»

img_8809Mentre parla si è accomodata e adesso la sua faccia simpatica occupa una buona metà dello schermo. È una bella ragazza bruna di ventun’anni, anche se non li dimostra proprio. Ci siamo trovati  in chat per raccontare la sua storia che è quella di una ragazza affetta di autismo e della sua scoperta del mare e delle barche.

Tutto comincia nel 2008 quando suo padre, Eusebio Busé, con l’aiuto del nonno e di qualche amico, restaura una piccola barca di sei metri, la rimette in acqua a Finale Ligure e la fa diventare la casetta galleggiante per sé e per la figlia, un mezzo con cui fare turismo nautico.

«Quando Sara aveva due anni e mezzo abbiamo avuto la diagnosi: disturbo dello spettro autistico. Fino a quattro anni non era verbale e non interagiva con gli altri» comincia a raccontare Eusebio «Abbiamo dovuto imparare tutto per aiutarla. L’idea di prendere una barca per farla diventare un nostro spazio è arrivata quasi naturalmente. Sono nato ad Albenga, ho studiato all’Istituto Nautico, ho sempre fatto sport nautici e ho sempre pensato che il mare fosse nel mio destino. E in un certo senso lo è stato anche se lavoro a terra, alla Michelin.»

Quando la barca viene varata Sara ha sei anni, Eusebio nel frattempo si è separato e la barchetta diventa lo spazio in cui lui e la figlia si ritrovano nei fine settimana. Succede qualcosa: Sara si innamora della barca, senza fretta ma senza sosta porta tutti i suoi pupazzetti a bordo e si lancia alla scoperta dello spazio che la circonda. Nel marina impara a muoversi come se fosse a casa sua, conosce altri bambini con cui nasce una piccola comunità che passa da una barca all’altra. Diventa la mascotte degli altri diportisti e, soprattutto, scopre il mare. Dai fine settimana in barca alle vacanze di mesi il passo è breve. Ogni momento libero Eusebio e Sara lo passano in barca che, manco a dirlo, si chiama come la bambina: Sara

«Vicino a Finale Ligure ci sono due scogli, sono diventate le nostre isole Fiji. Li chiamiamo ancora così. La barca è diventato il nostro mondo anche se non c’era niente, non il bagno, non la cucina. Solo i pupazzetti e due sacchi a pelo per dormire. Mia madre veniva a portarci il pranzo e usavamo i bagni del marina. Ma quello che vedevo succedere a Sara era incredibile: si ricordava tutti i nomi, giocava con gli altri, portava gli altri bambini sulla sua barca. Era una nuova prospettiva che, però, si chiudeva al ritorno a casa. Un appartamento non ti apre al mondo, ti chiude fuori dal mondo.»

hakuna-matata-30Nasce piano piano l’idea di fare un progetto che si apra anche ad altre ragazzi affetti da autismo e alle loro famiglie. Un progetto per e con Sara.

«Non avevo i soldi per comprare una barca più grande ma ero pronto a vendere la casa. Mia madre era contraria con delle buone ragioni, mio padre dubbioso ma possibilista. Lasciare la certezza di una casa per una barca sembrava un’idea folle. Ma, come dice Alessandro Sorani, un professionista della comunicazione e della formazione,  “Se dici una cosa banale tutti saranno d’accordo. È quando tutti ti dicono lascia perdere che sai di essere sulla strada giusta”.»

Alla fine la spunta e nel 2010 acquista un Oceanis 370, un barca di 10,50 metri che viene battezzata Adagio Blu e diventa la base di Hakuna Matata, un’associazione che nasce in famiglia ma diventa presto il punto di riferimento per tante altre famiglie di ragazzi disabili e non del territorio di Loano.

«Adagio perché le cose si fanno piano e blu perché è il colore dell’autismo» interviene Sara. «Io mettevo i parabordi, spiegavo la sicurezza… e poi le cime per… ormeggio che è come parcheggiare la barca. E poi salpavo… l’ancora».
Le chiediamo qual è stato il momento più bello?
«Per il mio compleanno ho visto tre balenottere comuni. Il compleanno dei 17 anni…»
«18 anni…» la corregge il padre. No 17… o forse 18. La data è incerta ma il ricordo di quelle tre balenottere è nitido e ancora emozionante: «Sai che sono animali enormi. Più grande è la balena azzurra però poi ci sono le balenottere» mi spiega Sara.
«Hai mai avuto paura?»
«No. Però una volta abbiamo salvato… due… che si erano rovesciati. Ho lanciato la cima io… un altro non voleva salire». Spiegano a turno di un’avventura a lieto fine: tre velisti su un piccolo catamarano che si rovesciano al largo di Loano. Adagio Blu sente il mayday e va in soccorso dopo aver avvisato la Guardia Costiera. Tutti salvi e per Sara la consapevolezza ancora oggi di aver fatto una cosa importante.

Per dodici anni  navigano da soli o insieme ad altri ragazzi e altri genitori. E Hakuna Matata lancia, tra le varie iniziative, anche «Un giorno per noi».

hakuna-matata-21«Tutti i genitori di ragazzi con disabilità non fanno altro che dire: non abbiamo mai un momento per noi. Si corre sempre da una parte e dall’altra: logopedista, neuropsichiatra, centri diurni, scuola, insegnanti, medici di tutti i tipi. Non c’è mai tempo. Parlavo di questo con mia madre mentre camminavamo sul pontile e lei mi ha detto: “devono prenderselo un giorno per loro”. E così è nata l’idea di Un giorno per noi:  famiglie e figli in barca. Abbiamo coinvolto tutti i diportisti del marina di Loano e poi la Guardia Costiere. Ci sono state otto edizioni ed è sempre stato un giorno speciale per tutti.»

Per dodici anni la vita di Sara scorre così, mare, uscite in barca, scuola, uno stage di lavoro alla Michelin in cui archivia otto mila file in tre giorni, contro il mese preventivato, e si mette alla prova come magazziniera. Poi le cose cambiano. La domanda a cui rispondere è: quale futuro per Sara? Bisogna fare una scelta.

«Abbiamo dovuto modificare la rotta e concentrarci sul lavoro: dobbiamo renderla autonoma dal punto di vista economico. Di una cosa però sono sicuro: se Sara è a questo punto, se riesce a fare un corso di studio che le darà un diploma e non un attestato, se riesce a camminare verso il futuro è per tutto quello che ha imparato in barca insieme ad altri ragazzi, abili e diversamente abili. L’esperienza degli equipaggi misti è stata fondamentale. Io lo dicevo sempre: siete voi la parte che deve includere Sara, dovete fagocitarla.» dice Eusebio che due anni fa ha deciso di chiudere l’associazione e vendere la barca per potersi concentrare sul futuro di sua figlia. Una scelta difficile.
«Vi manca la barca?» chiediamo.
«Mi manca il divertimento e… la felicità» dice Sara.
«Anche a me manca la barca ma ho imparato che nella vita ci sono degli step e bisogna andare avanti» conclude Eusebio.

Ci salutiamo con la promessa di andare in barca insieme. A noi resta una domanda: c’è un modo per non disperdere questa esperienza?

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