La velaterapia ha bisogno di dati. Puntiamo sulla ricerca.

È nato a Cagliari, sul mare, ma non è mai stato marinaio se si esclude una esperienza da ragazzo a bordo di una barca da pesca.  Un imbarco non proprio felice, ricorda: «Si navigava sempre, si dormiva poco, si lavorava continuamente tra vapori di gasolio e puzza di pesce. Dopo una settimana sono sbarcato».
formazione-tender-toPer una sorta di legge del contrappasso oggi Paolo Cornaglia Ferraris, 71 anni, pediatra, con un lunghissimo curriculum di ricercatore, dirigente ospedaliero, saggista, è il direttore scientifico della Fondazione Tender To Nave Italia, socio UVS. Da quindici anni Cornaglia Ferraris persegue un obiettivo: raccogliere dati sull’efficacia della Terapia dell’Avventura e della sua declinazione nautica, la velaterapia, in Italia ancora semisconosciuta mentre negli Stati Uniti è accreditata come SAT Sailing Adventure Therapy.
Una rapida ricerca sulla letteratura scientifica in Italia chiarisce il problema: poche le pubblicazione sulle esperienze di velaterapia, quasi tutte di carattere teorico con pochi, pochissimi dati. Al contrario, nei Paesi anglosassoni c’è una robusta biblioteca scientifica che dimostra, numeri alla mano,  l’efficacia dell’Adventure Therapy e della SAT nei percorsi di cura di patologie come l’obesità, il diabete, i disturbi post traumatici, i percorsi riabilitativi per le dipendenze, i percorsi di autonomia per persone con sindromi cognitivo-relazionali o disabilità funzionali.
«In Italia siamo ancora molto indietro: non abbiamo  abbastanza dati sull’efficacia della Terapia dell’Avventura e se non ci sono dati scientifici validati non è possibile accreditarla come cura e quindi inserirla nei protocolli terapeutici o educativi. Questa è una verità inconfutabile. Siamo, che ci piaccia o no, ancora in una fase pionieristica e c’è ancora molto da fare», spiega Cornaglia Ferraris che entra nel mondo della vela solidale nel 2009; ad affidargli la direzione scientifica della Fondazione Tender To è Carlo Emilio Croce, allora presidente dello YC di Genova,  promotore insieme alla Marina Militare della Fondazione che gestisce il brigantino Nave Italia.

«Allora di scientifico non c’era quasi nulla. C’erano esperienze sul campo di associazioni che avevano intuito come il mare e la barca potessero essere dei fattori positivi nei processi di cura, di riabilitazione e di aiuto alle persone. Intuizione sostenuta da forti motivazioni ideali ma non basata sui numeri. Una delle mie prime preoccupazioni è stato proprio la misurazione dell’efficacia. Ad esempio, l’osservazione diretta indicava che uno degli effetti più forti si aveva sull’autostima, nelle persone con disabilità o minori con disagi, è un fattore chiave. Ma quanto aumentava l’autostima? Quanto durava l’effetto? E quanto era utile alla cura o al processo di cambiamento? Abbiamo cominciato subito ad utilizzare il test TMA  (Test Multidimensionale dell’Autostima,ndr), un test certificato che, con qualche adattamento alla nostra realtà fatto dall’Accademia di Psicologia Sociale,  ci ha consentito di fare una valutazione oggettiva degli effetti di una settimana a bordo. È emerso che il picco di crescita si ha subito dopo lo sbarco ma, con il passare dei giorni, cala fino ad esaurirsi se non si prendono contromisure.»

Il metodo Tender To che prevede tre fasi –  pre imbarco, imbarco e post imbarco – nasce da quei primi dati ed è applicato sistematicamente con il  coinvolgimento degli enti che inseriscono la vela nei loro percorsi di intervento. «Non può essere che così: il progetto deve essere di proprietà dell’ente che ha in carico le persone e deve iniziare, svolgersi e continuare con la sua partecipazione in tutte le fasi. Il nostro Team  è formato quasi esclusivamente da psicologi che devono essere soprattutto dei facilitatori, non attori protagonisti.» L’altra parte dello staff è composto dall’ equipaggio militare, sono, infatti, gli uomini e le donne della Marina Militare che conducono la nave. Problema o opportunità?tender-to-militari

«La disciplina è una delle chiavi di volta, sia per gli equipaggi di persone con disabilità, sia con i minori. L’equipaggio militare fa entrare in un mondo “altro”.  Soprattutto con i minori del circuito penale lavoriamo sull’inversione del concetto di autorità, intesa non come sopraffazione ma come protezione. E questo aspetto funziona nelle due direzioni. Abbiamo visto militari di carriera chiusi, non solidali, cambiare atteggiamento verso la disabilità e persone che magari si sentivano “militari falliti” recuperare un diversa coscienza di sé.»
È stato misurato anche l’effetto della velaterapia sui militari? «Non l’abbiamo mai fatto per discrezione verso il comando. Avevamo però proposto di formare su Nave Italia gli equipaggi destinati alle operazioni di soccorso dei migranti. Non se n’è fatto niente. Peccato.»

Bastano i dati della Fondazione Tender To a sdoganare anche in Italia la velaterapia.? «No, non bastano. Serve fare massa critica tra tutte le associazioni di vela solidale. Partire dai territori, stimolare le Università a fare ricerca su Terapia dell’Avventura e velaterapia. L’UVS in questo senso può essre un grande collettore di dati e promotore di ricerca. Ci servono dati per uscire dal limbo del “palliativo” ed entrare, a tutti gli effetti, nei protocolli di cura ed educativi.»

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